venerdì 19 dicembre 2014

Occupazione: latitanza della politica

Il termine lavoro riporta al latino “labor” con il significato di fatica, impiego di un'energia per raggiungere uno scopo determinato. Non è questa la sede per un’analisi sociologica, considerando la doppia accezione di esaltazione o di avvilimento che ha in sé la parola lavoro. La nostra civiltà lo esalta quando vede in esso la capacità dell’uomo di realizzare se stesso, di soddisfare i propri bisogni di sopravvivenza, di liberarsi da certi condizionamenti naturali, in breve di costruire - in quanto homo faber - la sua vita e la stessa società. Lo avvilisce quando lo considera come un’attività puramente strumentale, orientata al mero consumo.
Il dettame costituzionale non ha bisogno di spiegazione: l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Eppure la percentuale di disoccupati continua a crescere. Tra loro: i giovani, gli espulsi dal mercato prima del tempo, i precari, gli sfruttati senza una copertura previdenziale e tanti altri ancora. La colpa di chi è? In molti vedono la classe politica inadatta a invertire la tendenza per mancanza di progettualità produttive che possano offrire una soluzione al problema sociale. La situazione è comune, anche se con dati percentuali diversi, a molti Paesi. La stessa Germania, la “kaiser” economica dell’Unione, non ride se Italia, Spagna, Grecia, Francia piangono. Il problema è complesso ma risolvibile. Si tratterebbe di rivedere l’intero sistema di distribuzione della ricchezza, assicurando a tutti pari dignità di fronte a un diritto sancito dalla “magna carta” italiana. Per riprendere a viaggiare con il resto d’Europa servono riforme strutturali. Aggiornare il mercato del lavoro, renderlo più flessibile e soprattutto globale, esigere una pubblica amministrazione più snella e sostenibile socialmente ed economicamente e che non sia solo testimone di una burocrazia impenitente e di ostacolo allo sviluppo per il Paese. Dai dati Istat si evince che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia sale al 44,2 per cento. La percentuale più alta in assoluto che si sia registrata dal 1977. Il Rapporto annuale sul mercato del lavoro del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro ribadisce il dato assoluto di una disoccupazione giovanile (under 25) pari a 710 mila giovani. Un dato disarmante nel più ampio quadro macroeconomico già pessimo per l’Italia: Pil al ribasso, scarsi investimenti, debito elevato. Il punto della situazione è che fare riforme strutturali significa proprio ripartire da quel 44,2 per cento. Dal lavoro che non c’è. Dall’interrogarsi su cosa e come occorre agire per incrementare l’occupazione. E’ la politica che deve avanzare proposte in quanto deputata a farlo in ragione del mandato elettorale.
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